In questo saggio dirompente e suggestivo, l’artista tedesca di origine afghana Moshtari Hilal prosegue in forma scritta – ma anche attraverso disegni e fotografie – la sua indagine sugli aspetti sociali e politici delle categorie estetiche. Secondo Hilal, infatti, la “bruttezza” è un fatto sociale, politico, persino economico, indubbiamente legato alla razzializzazione degli individui. Hilal sostiene che la bruttezza, così come la razza, non sia qualcosa che esista sul piano della realtà, ma piuttosto una categoria politico-economica utile a veicolare l’odio nei confronti di corpi e identità non conformi, da cui il capitalismo non riesce a produrre immediatamente valore e di cui deve quindi giustificare l’esclusione – in ultima istanza, la disumanizzazione – per renderne possibile lo sfruttamento. Il fondamento teorico da cui Hilal parte non è tanto la ricerca di parole e termini nuovi per definire il bello o il brutto, quanto la radicale messa in discussione della cause della bruttezza, cioè della società che la produce, oggi come ieri, come categoria. Ispirandosi a pensatori come Franz Fanon e attingendo al femminismo nero e ai Disability Studies, Hilal ci mostra quanto persino un senso come la vista, all’apparenza “naturale”, sia invece costruito ed educato da standard che rafforzano rigide gerarchie sociali. Con un passo tra saggistico e narrativo che unisce pagine di pensiero teorico a pagine più intime, liriche e familiari, Hilal ci conduce in un viaggio attraverso la vergogna e le paure che non siamo consapevoli di aver introiettato, un viaggio al termine del quale sarà impossibile guardarsi allo specchio come un momento prima di cominciare a leggere.
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