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“La bambina che calpestò il pane…” un racconto celeberrimo di Andersen che è entrato profondamente nella memoria collettiva, giacché a tutti, subito e immediatamente, sprecare, e magari gettare con disprezzo, il cibo, appare come un atto enorme, inconcepibile, persino diabolico. Dunque utilizzare fino in fondo il cibo a disposizione, impiegando quello avanzato in nuovo modo, soprattutto come ingrediente che entra in nuove combinazioni di sapore, è stata non solo e non tanto una dura necessità secolare per le famiglie più povere, ma anche quasi un dovere morale per quelle benestanti e privilegiate. Non buttare il cibo non è sentito soltanto come un ragionevole risparmio, ma anche come segno di rispetto verso il mondo, un atto dovuto nei confronti della scarsità che è parte decisiva della natura delle cose.
E tuttavia, la cucina di recupero e, più in generale, quella che definiamo ‘povera’ è una cucina anche povera di sapore? Direi esattamente il contrario. Essa nasce come esperienza millenaria di genti abituate a lottare tutti i giorni contro la fame e dunque esercitate fino al parossismo a trarre da ogni alimento, anche dal più insipido il massimo sia in fatto di sapore che di capacità di nutrire.
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