Può capitare oggi di andare in un ristorante di fama, in una qualsiasi città del mondo, e sentirsi declamare da un cameriere compunto e compiaciuto un menu così fatto: antipasti di mare, sushi, caviale, spaghetti all’amatriciana, crêpes al roquefort, anatra all’arancia oppure anatra laccata alla pechinese. La chiamano cucina internazionale, ma il suo nome giusto dovrebbe essere cucina multinazionale oppure supermercato dei sapori, con i pomodori pelati su una scansia, il curry e il chutney su un’altra. La sua regola è: mettere insieme tutto con tutto senza seguire nessuna regola. Con risultati sovente fatali. Arriverà certamente il giorno in cui ci serviranno crêpes alla vaccinara come ultima raffinatezza.
Nella nostra società egualitaria dei consumi, gli incontentabili e spesso gottosi gourmet di una volta hanno ceduto il passo a una moltitudine di presunti stilisti dei fornelli per i quali la cucina “raffinata” è appunto di questo genere, una cucina dove non c’è più zucchina senza gamberetto né fagiolo senza la corrispondente cozza: come in un’immensa Disneyland del gusto dove tutto, il castello medievale e la foresta vergine, la cattedrale gotica e l’astronave, è riprodotto nella stessa plastica colorata.
Questo ricettario è in opposizione a tale sconsiderata riforma della cucina. È, appunto, un ricettario controriformista. Non suggerisce innovazioni e suggestioni, ma dogmi. I dogmi della cucina in cui le salsicce secche si conservano negli orci di terracotta; i formaggi, il pecorino più o meno stagionato e il formaggio di fossa, sono piccole forme rotonde che formano colonne ben allineate nella dispensa; e il bollito non si chiama bollito ma, secondo una nostra classica, solenne, letteraria parola, “lesso”, e indica qualcosa di più di una pietanza: un’apoteosi del brodo, una festa invernale, una cerimonia, un rito!
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