La letteratura è il solo specchio dentro cui la vita, riflettendosi, giunge per un momento a dire se stessa. È l’idea centrale di questo romanzo misteriosamente bello. Tre donne lo abitano. La prima è una donna famosa, una scrittrice famosa: Virginia Woolf, ritratta a un passo dal suicidio, nel 1941, e poi, a ritroso nel tempo, mentre gioca col dèmone della sua scrittura. Le altre due sono donne che abitano luoghi e tempi diversi. Clarissa Vaughan, un’editor newyorkese di oggi, colta nel giorno in cui darà una festa per Richard, l’amico amatissimo, forse l’unico vero amore, che adesso sta morendo di AIDS. E Laura Brown, una casalinga californiana dell’immediato dopoguerra, bella e inquieta, desiderosa di fuggire dalla noia di un matrimonio ordinario. Che cosa lega il destino di queste tre donne? All’apparenza, la “Signora Dalloway” creata da Virginia sembra essere l’unico motivo in comune, ma un secondo e più nascosto filo attraversa e annoda il destino delle tre protagoniste. Cunningham fa pensare a un ventriloquo: usa la voce di Virginia Woolf come fosse la sua. Però stranamente è lì dentro che sentiamo risuonare un’eco. È un’eco inconsueta ma pure familiare: la voce di un vero scrittore.
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