L'edizione critica del diario ripropone il problema di Pavese, bistrattato dai giovani, difeso dai vecchi senza troppa convinzione. Sembra che difendano più l'uomo e il ricordo di lui che non la tragedia della morte e la validità dell'opera. Che cosa succederebbe se provassimo a mettere tra parentesi sia il "mestiere di vivere" che il "mestiere di poeta" e cominciassimo a chiedere che cosa resterebbe senza questi due tentativi, uno negato da lui stesso, l'altro dai giovani e meno giovani che vennero dopo di lui e che non riescono nemmeno a scaldarsi per "La luna e i falò", come riesce ancora a Fortini ( "il manifesto", 14 settembre 1990)? Credo molto, moltissimo. Resterebbe il grande traduttore dall'inglese (anche recentemente esaltato da un competente come Guido Fink), il consulente editoriale e animatore di una casa editrice importantissima (nonché di altre meno note e durevoli come Frassinelli), il critico e scopritore della letteratura americana (insieme a Vittorini), l'intellettuale di sinistra forse confuso ma autentico e pugnace, vitale e innovatore anche nell'incertezza ideologica, sicché questa ci appare oggi più feconda delle sicurezze dei suoi contraddittori quali De Martino e Muscetta. È sintomatico che la sua figura di "operatore culturale" non sia stata neanche toccata dall'ondata di pettegolezzi che si è riversata su Vittorini o su Montale. "Non fate troppi pettegolezzi", scrisse prima di suicidarsi. Sappiamo che i pettegolezzi occupano interi volumi. Ma su questo punto non ce ne furono. Si sono trovate troppe o troppo poche donne nella sua vita, ma la donna che gli tradusse sotto banco Moll Flanders o Moby Dick s'ha ancora da trovare.