Jerome Kagan - Le tre culture. Scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche nel XXI secolo (2013)
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Nel maggio 1959 fu pubblicato il testo di una conferenza che il fisico e scrittore inglese Charles Percy Snow aveva tenuto all’Università di Cambridge. Fin dal titolo, The Two Cultures and the Scientific Revolution, Snow distingueva la cultura umanistica da quella scientifica, individuando tra letterati e scienziati «un abisso di reciproca incomprensione», che spesso si trasformava in «ostilità» e «disprezzo». Alla sua uscita, il pamphlet non mancò di suscitare accese polemiche e un «tumultuoso dibattito», come scrive Ludovico Geymonat nella prefazione all’edizione italiana (Feltrinelli, 1964). A distanza di cinquant’anni – The Three Cultures è stato pubblicato originariamente nel 2009 – Jerome Kagan, professore emerito di psicologia di Harvard e pioniere della psicologia dello sviluppo, sostiene che l’analisi di Snow era sbagliata. Accanto alle scienze naturali (fisica, chimica e biologia) e alle discipline umanistiche, bisognerebbe annoverare le scienze sociali, come la psicologia, la linguistica, la sociologia, l’antropologia, la politologia e l’economia.
Non più due, quindi, ma tre culture, distinguibili secondo Kagan in base a nove criteri fondamentali, di cui solo alcuni di natura epistemologica: le aree di interesse delle ricerche, le loro premesse teoriche, il lessico di cui si servono, l’influenza delle condizioni storico-sociali, l’influenza dei valori etici, il grado di dipendenza dal sostegno finanziario esterno, le condizioni di lavoro, il contributo all’economia nazionale e i criteri che ciascun gruppo utilizza per giudicare «elegante o bello un corpus di ricerca». Nella sua analisi, incentrata quasi esclusivamente sul contesto statunitense, Kagan rileva che, da una parte, le ricerche degli scienziati naturali dipendono dai finanziamenti erogati da enti pubblici o da aziende private, sono poco influenzate dai valori etici e dalle condizioni storiche, sono realizzate per lo più in équipe e contribuiscono alla ricchezza nazionale. Dall’altra parte, gli studi degli scienziati sociali e degli umanisti sono relativamente indipendenti dai sostegni esterni, sottendono visioni etiche precostituite, sono influenzati dalle condizioni storiche, rappresentano in genere il frutto del lavoro individuale o di piccoli gruppi e offrono un contributo modesto all’economia del proprio paese.
Kagan, tuttavia, non è interessato tanto all’individuazione delle differenze fra le tre culture, quanto alle ragioni che hanno determinato la loro crisi quasi simultanea a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Una crisi che ha provocato un sempre maggiore distacco tra la comunità accademica e il pubblico dei non specialisti e ha impedito una collaborazione proficua fra i diversi campi del sapere. In primo luogo, l’autore attribuisce la perdita di autorevolezza delle scienze naturali alla difficoltà dei metodi utilizzati e agli assunti su cui si basano le ricerche, specialmente quelle di natura biologica, che talvolta contrastano con le convinzioni etiche di una parte rilevante della popolazione. In particolare, l’idea che tutti i fenomeni naturali siano il risultato di processi materiali prevedibili con ragionevole fiducia ha condotto in campo scientifico a un determinismo per molti inaccettabile; così come i non esperti ritengono inaccettabile la conclusione della biologia evoluzionista secondo la quale tutti gli animali, compreso l’uomo, tendono a massimizzare la loro «fitness inclusiva», a discapito di comportamenti altruistici o cooperativi. A ciò si deve aggiungere che sempre più spesso i cittadini e i mass media attribuiscono ai fisici e ai chimici la responsabilità, sia pure indiretta, delle conseguenze «negative» o «indesiderate» dei loro esperimenti: dall’inquinamento al riscaldamento globale, dai cambiamenti climatici alla proliferazione delle armi di distruzione di massa.
I casi, piuttosto frequenti negli Stati Uniti, di collusione con i governi e con le aziende che finanziano le ricerche hanno accresciuto lo scetticismo verso un’immagine idealizzata dell’uomo di scienza chiuso nel suo laboratorio. Anche gli scienziati sociali, sostiene Kagan, hanno perso gran parte della fiducia dell’opinione pubblica, perché i loro studi si basano su concetti, quali simbolo, cultura e società, ancora più controversi di quelli usati dalle scienze naturali e su premesse teoriche che non potendo essere verificate sperimentalmente conducono talvolta a conclusioni discordanti. La necessità di stare al passo con le scienze naturali ha determinato, inoltre, un’eccessiva fiducia nella «quantificazione» e nella misurazione dei dati, di cui hanno fatto le spese soprattutto la psicologia, la sociologia e l’economia. Per quanto riguarda le discipline umanistiche, su cui il libro si sofferma molto brevemente, Kagan ne imputa la crisi a diversi fattori, tra cui i principali sono l’eccessiva specializzazione, la concorrenza delle scienze sociali, il successo del «postmodernismo» e del «decostruttivismo» e l’avvento di Internet.
Nonostante le difficoltà, l’autore è convinto che le tre culture possano ancora recuperare la credibilità perduta, purché una volta messa da parte la conflittualità latente che caratterizza i loro rapporti inizino a collaborare. Ognuna di esse, scrive infatti Kagan, può contribuire da una prospettiva diversa a comprendere un aspetto della natura umana, svolgendo al tempo stesso una funzione sociale di critica e di controllo nei confronti delle altre: la biologia, ad esempio, potrebbe offrire un modello d’indagine alle scienze sociali; queste ultime, a loro volta, potrebbero contrastare la visione deterministica delle ricerche genetiche.
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