[Gianfranco Maris è presidente di ANED-Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti, e presidente della Fondazione Memoria della deportazione – Archivio e biblioteca Aldo Ravelli.]
È opportuno, oggi, stampare ancora e dunque diffondere il Mein Kampf hitleriano? O non si dovrebbe piuttosto lasciarlo coperto dalla polvere del tempo e cancellarlo, nel quadro complesso di un secolo che si è snodato attraverso i feroci massacri del colonialismo, il genocidio degli armeni, la carneficina di una prima grande guerra, l’ecatombe da 30 milioni di morti della seconda guerra mondiale, e 11 milioni di vite annientate nei campi nazisti col lavoro forzato, con la fame e col gas?
Dopo il 1945 alcuni Paesi ritennero di proibire la circolazione del Mein Kampf per impedire che se ne potessero ancora diffondere i veleni. Ma da allora, un po’ dappertutto, e anche in Italia, il testo hitleriano ha trovato ristampatori più o meno clandestini. Negli anni Sessanta, una stamperia di Monfalcone pubblicò una riedizione del Mein Kampf la cui prefazione, depurata di ciò che per decenza è irripetibile, concludeva così:
«È un libro che smaschera l’ipocrisia dei miti democratici, per dare posto alla Nazione Europea, l’Europa dei lavoratori, dei combattenti, di tutti coloro a cui ripugna il servilismo; speriamo che gli europei da questo libro sappiano prendere coscienza di se stessi e che facciano ricordare agli imperialisti nemici che siamo 400 milioni di uomini e che la stirpe di Ulisse non è ancora morta».
Una riprova di come il testo hitleriano possa essere usato per alimentare falsificazioni storiche, mistificazioni politiche e abiezioni morali. Del resto, la lettura del Mein Kampf rimane fondamentale per capire come sia stato possibile prima del 1945, e come sia stato possibile ancora dopo, nella seconda metà del secolo scorso, e come sia possibile ancora oggi, e come potrebbe essere possibile in futuro, che le farneticazioni generino mostri.
Nel 1995 il Mein Kampf è stato tradotto in ebraico e pubblicato in Israele (dalla Akademon, la casa editrice del sindacato degli studenti dell’Università ebraica). Promotore dell’iniziativa e traduttore del testo è stato Dany Yaron, ex responsabile del dipartimento Cultura e educazione del Comune di Tel Aviv. «Anche se non ha alcun valore letterario», ha dichiarato Yaron, «il libro hitleriano è un documento storico importante». Di famiglia ebreo-austriaca, Yaron da ragazzo, nel 1938, assistette alla invasione nazista dell’Austria e all’arrivo di Hitler a Vienna; poche settimane dopo fuggì clandestinamente, con i suoi familiari, in Palestina.
In Italia il Mein Kampf era stato edito in forma ufficiale negli anni Trenta dalla Bompiani, nel clima del nazifascismo, ma a partire dal Dopoguerra era scomparso, diventando un tabù politico-editoriale (salvo, come si è detto, le riedizioni semiclandestine). Oggi viene ripubblicato, come documento storico, da una piccola casa editrice di sinistra, e a cura di uno storico democratico come Giorgio Galli. È una iniziativa assai opportuna, per i tempi e per i modi. Il libro hitleriano, infatti, contiene la summa ideologico-programmatica dell’immenso crimine che più di mezzo secolo fa ha tentato di distruggere, con il terrore e nel sangue, etnie, costumi, religioni, diversità, intelligenze, culture, libertà e democrazia; e oggi c’è chi vorrebbe cancellare tutto nell’oblìo, rimuovere tutto nella “pacificazione”, mistificare tutto con il revisionismo e perfino con il cosiddetto negazionismo.
Quando, nel 1938, una imbelle democrazia europea tollerò che il Reich hitleriano si annettesse l’Austria, e l’anno dopo che le armate naziste invadessero la Cecoslovacchia, quella democrazia di fatto consentì le premesse della barbarie che di lì a poco avrebbe insanguinato l’Europa. Fu una responsabilità grave, mossa da interessi politico-economici, che costò poi milioni di morti.
Non si capì, allora, che la democrazia e la libertà in Europa o erano per tutti o non erano, che si trattava di valori accomunanti e indivisibili. Noi deportati quel concetto unificante lo capimmo: eravamo di nazionalità diversa, di religione diversa, di lingua e ideologia diverse, ma eravamo uniti da una solidarietà assoluta. Era quella consapevolezza di comuni valori, umani e ideali, che permise poi di sconfiggere il nazifascismo.
Occorre ricordare che la barbarie nazifascista non fu solo lo sterminio antisemita. Essa si scatenò anche contro altri gruppi sociali: dai comunisti agli anarchici, dai socialisti ai disabili; dagli slavi ai “testimoni di Geova”, dagli zingari agli omosessuali. Né fu barbarie solo in ragione dei milioni di vittime: il nazifascismo è aberrante in sé, come ideologia politica, come dottrina sociale, come concezione culturale, come dimensione “spirituale”.
Con il trascorrere del tempo vengono meno i testimoni diretti delle atrocità naziste, cioè coloro la cui memoria è conoscenza, la cui testimonianza è storia. E alle loro voci tendono a sostituirsi i mistificatori della odierna storiografia revisionista, gli impostori del negazionismo.
Sbandierando una presunta “equidistanza ideologica”, gli attuali revisionisti pretenderebbero di attribuire al comunismo la responsabilità del nazifascismo, e di minimizzare la entità dell’Olocausto. Ma c’è di peggio: ostentando un qualche “modernismo intellettuale”, gli odierni negazionisti pretenderebbero di negare la Shoah.
Hanno cominciato a farlo in Francia, alla fine degli anni Settanta, un ex commissario addetto alla “questione ebraica” del governo nazifascista di Vichy, e un docente universitario. Il primo, Louis Dacquier de Pellepoix, ha sostenuto che le camere a gas di Auschwitz servivano solo a gassificare i pidocchi. Il secondo, Robert Faurisson, insegnava ai suoi studenti che nei lager nazisti non c’erano affatto camere a gas, e che lo sterminio antisemita è una leggenda.
Posso smentirli come testimone diretto con due ricordi personali. Al mio arrivo nel campo di Mauthausen, nel luglio del 1944, dal mio gruppo furono subito prelevati e immediatamente gasati gli inabili al lavoro. Il 21 aprile 1945 – a pochi giorni dalla liberazione delle città italiane, pochi giorni prima del crollo dell’esercito tedesco e della fuga delle SS che comandavano il campo – a Mauthausen noi, pochi superstiti degli ultimi mesi di lavoro nelle cave e nelle gallerie, fummo riuniti nel piazzale dell’appello: 800 di noi, selezionati dagli aguzzini, vennero tutti assassinati col gas quella stessa notte.
La lettura del Mein Kampf deve essere assistita da tutte le riflessioni necessarie per comprenderne gli assunti senza esserne intossicati. Deve essere una lettura intesa come “vaccinazione” di conoscenza, fosse solo per impedire il ripetersi – mutatis mutandis – di quelle condizioni che nel 1922 e nel 1933 portarono all’avvento del fascismo e del nazismo tra sottovalutazione e addormentamento della ragione.
È bene che oggi il Mein Kampf sia conosciuto, ma tra la rivisitazione dei fatti e la loro memoria storica intercorre uno spazio che soltanto la riflessione può colmare. Per esorcizzare il mostro prefigurato nelle pagine del libro hitleriano non basta descrivere le terribili atrocità che esso causò all’umanità. La funzione della lettura, che è conoscenza, è anche quella di incidere sulla coscienza e sull’intelligenza dell’individuo in termini dinamici.
Non basta rivisitare i fatti: occorre comprendere in quale contesto maturarono, e quale fu il loro rapporto causale immediato. Occorre capire quali furono i processi che consentirono a un’aberrante ideologia di farsi realtà fattuale, e di “costruire”, di “plasmare” gli individui che le diedero corpo.
Nel breve volgere di pochi anni il cittadino tedesco, ricco di un’antica e forte cultura, fu come privato delle sue capacità, come snaturato dei suoi valori, e trasformato in un delirante discepolo razziale, in un fanatico nazionalista, in un feroce antisemita. Come per un infernale sortilegio, il cittadino tedesco diventò docile assertore della legittimità del crimine, della legalità della violenza, della opportunità della “Notte dei cristalli”, della necessità delle “Leggi di Norimberga”, dell’eutanasia di massa, dei campi di sterminio; avallò la missione degli “Einsatzkommando”, avallò la pulizia etnica affidata al battaglione 101 della polizia di sicurezza di Amburgo…
Non fu un sortilegio, ma un rapido processo di intossicazione ideologica di massa accompagnata dal terrore. Il nazismo, come già aveva fatto il fascismo, si edificò in regime mediante lo snaturamento del sistema della giustizia, assumendo il totale controllo della cultura, del sistema scolastico, dell’informazione; attraverso la negazione dei diritti fondamentali della persona, delle libertà politica e sindacale. Il tutto, orchestrato da una propaganda ossessiva, pervasiva, totalizzante.
Oggi, mentre vengono rimessi in discussione equilibri e valori sortiti dalla seconda guerra mondiale, non è possibile una lettura del Mein Kampf come semplice “curiosità storica”. Tantopiù che oggi lo stesso fenomeno concentrazionario appare non più riconducibile ai soli regimi totalitari, ma pare caratterizzare l’identità di Stati-nazione i quali al loro interno vessano e alterano la democrazia, e inclinano alla violenza nei rapporti internazionali. Oggi non è possibile eludere i pericoli insiti nel rapporto fra un terribile passato e questo difficile presente.
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