In un grande museo londinese, che sembra una copia sarcastica delle nostre società di massa, metà istituzione popolare – nelle sale aperte al pubblico - metà reame di eccentrici manager autocrati – che conosciamo uno per uno, nei tic nelle monomanie nelle frustrazioni e nelle gelosie, più che se si presentassero di persona – arriva dalla Garamanzia il Fanciullo d’oro: sarcofago millenario di un re morto bambino, avvolto in un’aurea pellicola, assieme ai suoi preziosi giocattoli. Sir William, decrepito despota delle stanze superiori, che tiene in pugno i capi del museo con la promessa del lascito del proprio immenso patrimonio, lo portò alla luce durante una spedizione archeologica più di un cinquantennio prima, e ora è offerto in mostra a file infinite di scolaresche. E mentre ai piani inferiori che ospitano la mostra fa da coro plebeo la massa inesorabile e odiata dei visitatori che si sacrificano al rito del loro turno, ai piani segreti superiori, e tra la biblioteca e i magazzini, si svolge un complesso intrigo.
Più morti, un suicidio, un falso clamoroso, traffici clandestini di beni museali, affari di spionaggio internazionale, sono gli eventi di un intreccio mistery con cui Penelope Fitzgerald costruisce una commedia «gialla» di ironia graffiante e gusto dell’assurdo.
Paragonata alla prosa di Jane Austen, non solo per l’eleganza del tocco. Ma forse soprattutto perché costruita dal particolare all’insieme generale, quasi che il plot non fosse altro che il pretesto per una serie di indimenticabili quadri umoristici, vividi personaggi e dialoghi da gran teatro.